I generi nell’arte e il senso dello spazio
“A cosa serve l’arte?”
Quante volte, illustri lettori, avete sentito questa frase? E quante volte avete sentito rispondere: “A niente”.
D’altra parte anche io potrei dire: “A cosa serve il greco, il latino, la poesia, la filosofia”?
Risposta semplice semplice: “A niente.”
Non servono a zappare la terra, a produrre biscottini del “Mulino Bianco”, a spazzare il pavimento, a lavare stoviglie ecc. ecc.
Eppure, se ci pensate bene, cari lettori, senza la loro bellezza, il loro fascino, la loro “visione” delle cose, non credo potremmo vivere.
E vorrei citare a sostegno il poeta Erza Pound allorché dice: “È una sciocchezza sostenere che l’arte non sia didattica. Una rivelazione è sempre didattica”.
Risposta apparentemente banale, ma se ci pensiamo bene non possiamo non riconoscere che qualunque arte, dalla musica, alla poesia, alla pittura, scultura e così via elencando rivela sempre un frammento di realtà.
E noi fruitori cosa facciamo? Recuperiamo milioni di frammenti per generare nuove idee, nuove impressioni, nuovi concetti, che servono a mettere insieme una visione della realtà a seconda delle epoche in cui siamo vissuti, viviamo e vivremo.
Certo non ci porterà una lira in tasca l’osservare un’opera d’arte, ma quanta produzione di idee ci può dare! Immaginate Omero, Dante, Ariosto, Verga, Giotto, Michelangelo e via citando.
E se non ci fossero stati?
A voi le risposte.
Immaginiamo un’opera d’arte di accurata figuratività.
Se ci pensiamo bene, ci accorgiamo, come dietro quella pazienza rappresentativa, ci sia sempre un grado di astrazione, dentro cui si incunea il nostro pensiero e il nostro pensare, da cui scaturiscono le nostre opinioni, giudizi, riflessioni, lettura della realtà.
Quanto detto sopra, vi prego, distinti lettori, di considerarla una introduzione per affrontare l’argomento dei “generi” nell’arte, ai quali aggiungerò il senso dello spazio, non senza raccomandarvi di non perdere mai l’emozione del primo impatto con l’opera, perché, spesso, troppo “cervello”, e quindi razionalità ci induce a sottovalutare, a contenere le nostre emozioni di fronte all’opera.
Così come avviene quando si fa l’analisi testuale di una poesia e si va a esaminare il titolo, il tipo di testo, la dimensione spazio-temporale, i campi semantici o altro, a cui va aggiunto che ognuna di queste branche ha poi delle sottosezioni che a sua volta hanno…
Alla fine, dopo tanto lavoro, abbiamo perso la suggestione che la lettura di un testo poetico ci offre.
Allo stesso modo avviene quando si osserva un dipinto, lo si seziona punto per punto, si leggono le varie interpretazioni, si esaminano i colori, le forme, la linea, il tratto, il segno, gli equilibri e via discorrendo. A questo punto cosa abbiamo perso? Certamente l’emozione dell’impatto che l’opera ci dà al primo sguardo.
Allora cosa fare?
Ovviamente chiederci: “Che cos’è un’opera d’arte?” e quali sono gli elementi che la compongono.
Le risposte potrebbero riempire dozzine di volumi, oppure poche righe, se diciamo che arte è equilibrio, gusto, capacità di comunicare emozioni, di esprimere un pensiero attraverso delle forme, dei colori, dei rilievi, ma anche attraverso suoni, frasi, scritti letterari e così di seguito.
Se riflettiamo bene, l’opera d’arte non è altro che l’insieme delle osservazioni della realtà da parte dell’artista in uno con la sua fantasia.
Risposta troppo semplice. Necesse est una spiegazione più accurata.
Riflettiamo sul concetto di natura. Apparentemente essa sembra mutevole, ma, se riflettiamo, ci accorgiamo che essa è immutabile nella sua mutevolezza.
Tuttavia, essa non ha coscienza di sé, dell’evento che si verifica, l’artista invece è cosciente e condiziona il risultato di un’opera in base a ciò che pensa, sente, immagina…
Ma non basta.
Giotto, ad esempio, nel ‘500 e nel ‘600 fu sottovalutato e così per tanti altri artisti diversamente interpretati lungo tanti secoli.
Ma non basta. C’è da ricordare anche che un’opera è sempre un prezioso documento di storia, di costume, di modo di vita, di modi dell’abitare, dell’arredare…
Osservate, gentili lettori, un’opera cubista. Essa è stata conformata secondo la visione di chi osserva l’oggetto contemporaneamente da tanti punti di vista. Come se l’osservatore girasse attorno all’oggetto.
Se ricordate qualche immagine di San Sebastiano, Sant’Agata o di qualche altro Santo vi chiederete sicuramente come in un’epoca molto castigata i santi spesso erano rappresentati nudi.
La risposta, distinti lettori, l’avrete già intuita. Normalmente era assolutamente proibito il nudo nella rappresentazione della realtà, perché fonte di peccato, ma non per quel che riguardava la purezza del corpo dei santi. Così gli artisti ci hanno lasciato nudi eccelsi come quelli dei martiri, di San Giovanni Battista o dello stesso Cristo.
Infine, abbiamo la cosiddetta c) “pittura di genere”, che riunisce tutte quelle opere che rappresentano la vita comune, insomma le scene di tutti i giorni, che potevano arredare tutte le case e quindi mettevano in relazione l’artista con uno strato più vasto di popolazione, dal momento che anche lui aveva il problema di mettere insieme il pranzo con la cena per tutta la sua famiglia.
In questo “genere” abbondano le nature morte e i ritratti. Infatti, chi se lo poteva permettere, come potete vedere in molti film, chiamava l’artista in casa per tramandare la propria effigie.
Sicuramente tutti ricorderete il bel ritratto dei “Coniugi Arnolfini” di Jan Van Eyck, che sta a testimoniare la ricchezza e il benessere raggiunto dalla famiglia attraverso i commerci.
La Pace, neanche a dirlo, lo sapete sin da quando eravamo bambini, aveva un ramoscello di ulivo, allo stesso modo per indicare il martirio si usava una fronda di palma. L’Abbondanza era una fiorente signora con un mazzo di spighe, mentre la Miseria era una vecchia cadente con i seni penduli.
La Pigrizia era una clessidra rovesciata a indicare il tempo perduto e l’ozio era rappresentato da un individuo grasso e dall’espressione ebete.
La Fedeltà, lo sappiamo, era il tradizionale cane, la Fortuna la donna bendata, il Cristo l’albero della vita. Una scala d’oro stava a indicare l’ascesa al Paradiso, una fonte il Cristianesimo.
A questo punto, prendendo lo spunto dai generi su accennati vorrei approfondire meglio il discorso sullo spazio, in quanto scoperta della profondità e del volume in senso prospettico.
Gli Egiziani, i Greci e i Romani usavano una prospettiva elementare e intuitiva di tipo naturale, che affondava le sue radici negli studi di ottica poi raccolti ed esposti nelle Proposizioni di Euclide, il quale non partiva dalla distanza, ma dall’angolo da cui la grandezza di un oggetto era guardato.
Nel Medio Evo lo spazio era un’astrazione e veniva rappresentato da un fondo blu, celeste, oppure
dorato e la figura stessa era assolutamente piatta.
Quindi, gentili lettori, quando osservate uno di questi quadri di Giotto ma anche dei suoi seguaci, avrete l’impressione di trovarvi davanti ad ambienti come “scatole”, che si succedono le une alle altre e spesso tra loro comunicanti a simulare un gioco di incastri di forte senso spaziale.
Antesignano di questo genere è il famoso Antonello da Messina, che pare sia stato il primo ad adottare i colori a olio, la cui tecnica avrebbe appreso dai fiamminghi. D’altra parte, Messina a quel tempo era un porto importantissimo e vi attraccavano navi provenienti da ogni parte e quindi senza raggiungere possibilmente le Fiandre, Antonello apprese la tecnica direttamente nella sua città, ove giungevano con ogni probabilità anche dipinti arrotolati e non più su tavola.
Sotto di essa San Sebastiano emerge in tutta la sua solennità, proprio perché ci sono delle figurine più piccole. Inoltre, la parete di sinistra è in ombra, per cui ne risulta accentuato lo spazio intorno e ci porta a immaginare una quinta di un teatro.
Per converso, le pareti di fondo sono molto luminose e a causa di ciò si avvicinano al fruitore e nello stesso tempo assumono risalto, perché il cielo è scuro e a loro volta fanno risaltare le piccole figure che animano la scena.
Una semplice nota. Nel Medioevo, prima che fosse scoperta la prospettiva scientifica, ma anche quando la prospettiva era intuitiva, come in Giotto e nei suoi seguaci, la cornice, costruita con grande maestria e misura in legno intagliato e dorato, aiutava moltissimo l’artista, perché metteva in evidenza la profondità dello spazio immaginario in cui il fatto raffigurato si svolgeva ed era anche momento di raccordo con l’architettura del luogo, in cui il dipinto veniva posto.
Immaginate i grandi dittici, trittici, polittici che ornano le nostre chiese senza le cornici, sarebbero solo un insieme di lavori monchi, appunto perché la cornice aveva la funzione di rendere omogeneo lo spazio della rappresentazione pittorica.
Gli stessi affreschi nelle basiliche avevano una loro cornice, anch’essa dipinta e simbolica, a separare lo spazio della realtà, il mondo esterno, da quello artificiale immaginato dall’artista.
Anche in presenza di quadri di genere o di ritratti, autoritratti, nature morte e così via c’erano sempre delle cornici di legno con intagli di forme varie. La cornice quindi, allora come oggi, racchiude e modifica una certa visione dello spazio sia con il condizionarlo sia col crearlo.
Oggi si tende a semplificare la cornice, addirittura se andate nei Musei e osservate bene, molte antiche e monumentali cornici sono state tolte e sostituite con anonimi listelli, che tolgono certo molto all’espressività del quadro, appunto perché quadro e cornice erano, allora, un tutto inscindibile.
Affezionati amanti dell’arte, la lettura di questo articolo sarà stata abbastanza complessa e me ne scuso. Spero di essere più lineare in un prossimo intervento.
Lidia Pizzo









