La legge della visione
Esimi lettori, chissà quanti musei riguardanti l’arte avrete visitato in giro per l’Italia e magari all’estero. Chissà quante cose avrete notato: le allegorie in primis, l’originalità dell’impostazione di un’immagine, la prospettiva ecc. E a proposito di quest’ultima vi sarete resi conto della differenza tra prospettiva scientifica e quella intuitiva.
Allora, se non ve ne siete resi conto, è bene parlarne, ma se la conoscete bene, saltate la lettura e passate alla seguente.
Certo, l’argomento è molto vasto ma cercherò di renderlo possibile in queste poche pagine.
In esergo, teniamo a mente che la prospettiva è un metodo di rappresentazione grafica, che ci restituisce un’immagine, un disegno, un bassorilievo su una superficie a due dimensioni (larghezza e lunghezza) come se ne avesse tre (profondità).
Allora, se volessimo definire con altre parole la prospettiva, dovremmo dire che essa è la rappresentazione corretta delle leggi della visione, leggi che in modo rigoroso furono applicate nel Rinascimento dai grandi maestri, Leonardo in primis, Michelangelo, Raffaello tanto per citare i più noti. Ma con qualche eccezione. Infatti, quando un artista notava che l’applicazione rigida delle leggi della prospettiva nuoceva alla resa dell’immagine, la correggeva in qualche punto.
Osservate, questa immagine. Difficilmente in un’opera d’arte avrete notato un’espressività più intensa e provate a muovervi osservando l’immagine da un altro punto di vista, vi accorgerete che essa cambia espressione.
Almeno questa è la sensazione che ho provato io, vedendolo.
E che dire dell’ “Ultima Cena” di Leonardo?
Un esperto in prospettiva: Peter Greenaway si accorse che il piano della tavola imbandita era stato inclinato di sette gradi (cito a memoria) rispetto alla prospettiva corretta, in modo da permettere all’osservatore di vedere gli oggetti disposti sulla tavola. Eppure, quest’opera è considerata il culmine della scienza prospettica del tempo.
Quest’opera d’arte rappresenta il culmine della scienza prospettica del tempo, in quanto, qui, si integrano perfettamente e armonicamente sia lo spazio reale del refettorio della Grazie, sia lo spazio illusionistico dell’opera, senza parlare degli effetti di luce. Infatti, Leonardo sfrutta nella composizione anche la luce che proveniva dalle due finestre laterali del refettorio.
Di conseguenza, l’illusione ottica è perfetta, perché la sensazione che ha il riguardante è che sia quella luce delle finestre di sinistra ad illuminare la parete di destra del dipinto. In realtà è una finzione perché quella luce è stata dipinta dall’artista. Ma non basta “la luce finta” filtra anche dalla triplice fila di finestre del fondo, di modo che queste “luci” hanno la funzione, incrociandosi, di realizzare “un campo” in controluce sulla testa del Cristo, che sembra avere una immaginaria aureola, infatti è lì il punto di concorso di tutte le linee prospettiche.
Ma Leonardo lavorava molto lentamente, quindi pensò bene di usare la pittura a olio dopo aver preparato l’intonaco in certo modo. Ecco perché l’opera è giunta a noi molto rovinata. Tra l’altro si allontanava spesso alla ricerca del modello che doveva rappresentare i vari personaggi. E come se non bastasse i monaci, proprio sotto la tavola apparecchiata, aprirono delle aperture, cancellando quindi la parte inferiore dell’opera dell’artista.
Ci viene da dire che questa opera straordinaria non ebbe la meritatissima “fortuna”.
E cosa dire della prospettiva nelle costruzioni? Tutti abbiamo visto la città ideale, simbolo dell’armonia che il Rinascimento seppe creare.

Una gita a Pavia documenta efficacemente la prospettiva applicata nella realtà. Osservate le linee e vedrete la loro convergenza prospettica laddove alla fine della strada ci sono le torri. Noterete senza difficoltà che le direttrici suggerite dalla pavimentazione della strada stessa nonchè i profili delle case tendono a convergere in un unico punto che si trova al centro e alla base delle torri. Questo punto in cui convergono tutte le linee si chiama punto di concorso. Mentre la linea orizzontale che passa per il punto di concorso si chiama linea d’orizzonte che idealmente si trova all’altezza degli occhi dell’osservatore.
In questo schema della città ideale, quando il punto di concorso è solo uno, la prospettiva è frontale, mentre la linea di terra, o linea di stazione, in genere, corrisponde alla base del dipinto.
Come potete osservare dall’immagine, per il Mantegna l’escamotage di “aprire” la volta verso il cielo diede alla stanza una maggiore illusione di profondità e un grande senso di ariosità, che il modesto ambiente di per se stesso non avrebbe consentito. L’amore per gli scorci audaci, per le forme definite, in una parola per la ricerca prospettica-illusionistica e per la massima resa plastica dei volumi sfociò, poi, in Mantegna nel tragico e mirabile: “Cristo morto” (Cristo in scurto) di cui abbiamo detto. Purtroppo, questo artista morì a soli 37 anni.
Sicuramente ve ne state chiedendo il motivo. I geni non mettono le cose a caso. Come notate esse servono da elemento equilibratore per fare risaltare le masse superiori concepite come figure classiche, eroiche e grandiose.
In Mantegna, infatti, come già visto nel “Cristo morto”, la rievocazione del mondo assume una serena e armonica compostezza classica, un senso di nostalgia per quel mondo eroico e solenne.
Un’ultima cosa: il colorismo. Esso, con il suo tono più o meno profondo, accentua l’effetto illusionistico.
Cari lettori, mi rendo conto che con tutte queste notizie vi ho molto stancato. Un po’ di pazienza ancora, però, così dopo questa indigestione, non torneremo più sull’argomento.
Ricordate ciò che abbiamo detto appena sopra a proposito di Leonardo? Il riferimento ovviamente e quello. Però, la resa del mondo reale va oltre il reale stesso.
Infatti, voi stessi osservatori potete notare che le immagini sono di un’esasperata perfezione fotografica, ma inserite in un ambiente surreale, che rende enigmatico il dipinto. Aggiungete l’evidente simbolismo: dodici gli apostoli, dodici i lati dell’immaginario dodecaedro a sua volta composto da dodici pentagoni in cui si svolge la scena. Guardatela bene, cari lettori, vi rassomiglia forse al dipinto di Leonardo? Sì, nell’idea, per niente nell’atmosfera surreale, che avvolge la scena ottenuta con la fusione magica tra il ricordo del sogno stesso e la fantasia.
Per questa volta la “pillolina artistica” è stata inghiottita? Vi rimando alla prossima.
Lidia Pizzo




